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Interviews & articles
     
 Robert Wyatt - La vita è un gregge - Rockerilla - N. 278 - ottobre 2003





di MAURIZIO MARINO





Incontrare Robert Wyatt vuol dire prima di tutto avere a che fare con uno di quei pochi personaggi del mondo della musica per i quali l'Arte è principalmente un interesse personale, una ragione di vita, e solo secondariamente uno strumento per vendere dischi. E non è certo una forzatura definire Wyatt uno dei pochissimi musicisti per i quali la parola "artista" non suona retorica né fuori luogo.

Poter conversare con un personaggio come Robert Wyatt, poi, è una di quelle cose che appagano e rasserenano, uno di quei traguardi sempre vagheggiati che il giornalista ha sognato fin da bambino, uno di quegli obiettivi che chi scrive di musica ha sempre tenuto nel cassetto dei "desiderata", con la segreta speranza che prima o poi quel sogno potesse realizzarsi.

E' dunque con un certo timore riverenziale che il sottoscritto si accosta all'incontro face to face con Robert Wyatt, che avviene in un rinfrescante pomeriggio di settembre nella quiete del giardino dell'Hotel Le Meridien di Torino. Ma sono sufficienti davvero pochi minuti per fugare ogni timore e per accorgersi dell'immensa umanità ed umiltà di quest'uomo che, giunto in Italia per promuovere il nuovo, bellissimo album "Cuckooland", ha accettato - dopo le domande di rito sul nuovo lavoro - di raccontarci in modo amabile e piacevole storie ed aneddoti tratti da una carriera che dura da circa quarant'anni...



- Da "Shleep" a "Cuckooland" sono trascorsi sei anni. Possiamo definire questo lasso di tempo come una lunga pausa di riflessione oppure semplicemente come un intervallo necessario a mettere insieme i nuovi brani nella miglior maniera possibile?

«Secondo me la quantità e la qualità non sono la stessa cosa. C'era un periodo in cui sembrava che le famiglie facessero a gara nel mettere al mondo i bambini: fino a non moltissimo tempo fa capitava di vedere madri che avevano dato vita a dodici o quindici figli! (Ride. Ndr) Altre famiglie però hanno creduto che mettere al mondo solo pochi figli potesse aumentare il tempo che si poteva dedicare a ciascuno di essi. Io appartengo decisamente alla seconda "scuola", ed anche se io e Alfie non abbiamo avuto figli, durante gli anni abbiamo fatto nascere alcuni dischi. Ci siamo dedicati ad essi in modo che non patissero la fame, che avessero una buona istruzione e dei bei vestiti. E' per questo motivo, dunque, che ho sempre preferito fare pochi dischi, evitando di affollare il mercato con uscite poco utili.

Fuor di metafora, "Cuckooland" è nato dopo sei anni perché prima i tempi per un altro album non erano ancora maturi. Molte canzoni di questo disco sono rimaste nel mio registratore portatile o anche nella mia mente per anni, semplici idee incompiute. Poi, in alcuni casi dopo molto tempo, ho deciso di riprendere in mano quelle idee e di dar loro una forma compiuta. Stavolta il lavoro di team up con Alfie è stato totale: in brani come "Old Europe", "Forest" e "Lullaby For Hamza", ad esempio, io ho scritto la musica e lei l'ha completata trovando delle parole stupende. In "Cuckooland" ho cercato di ritrovare le mie radici musicali: ho voluto includere diversi autori e diversi stili musicali. Ma alla fine il risultato è esattamente quello che avevo in mente: una raccolta di semplici pop songs, che tutti possono ricordare ed anche cantare con facilità».


- Io odio le definizioni ma credo che per "Cuckooland" possa essere abbastanza azzeccata la definizione di album "politico poetico". Credi sia ancora possibile, negli anni Duemila, comunicare alla gente qualcosa di importante con una canzone?

«Sinceramente non ne ho idea. Io sono prima di tutto un ascoltatore, poi un musicista, e solo in terza battuta un paroliere. Quel che mi emoziona nella musica viene prima di tutto dal suono, e a volte rimango estasiato da dischi sui quali non è registrata neanche una parola: credo che il "meta-linguaggio" della musica sia molto importante. Quando scrivo dei testi, dunque, aspetto che le parole "vengano fuori" dalla musica: a volte i miei testi sembrano non avere un senso compiuto perché, quasi come nei sogni, io cerco di cogliere solo le parole che vengono in superficie, quelle che mi colpiscono di più e che stanno meglio in armonia con i suoni. E' difficile, dunque, rispondere alla tua domanda: io non sono un sociologo, e quindi non sono qualificato ad analizzare questo fenomeno, però in cuor mio spero ovviamente che le mie canzoni siano servite almeno un po' a far riflettere le persone, anche se non ne ho mai avuto la pretesa...».


- Brian Eno, Phil Manzanera, David Gilmour e Paul Weller sono i nomi più noti coinvolti in "Cuckooland". Ascoltando le canzoni del disco è facile percepire il grande senso di amicizia che ti lega a loro. Un senso di amicizia che è molto diverso dall'abituale "lavoro in studio" tra musicisti che si immagina di solito. Che ne pensi?

«Sono molto contento che tu abbia notato questo particolare. Io non ho mai distinto nella mia mente tra "persone famose" e "persone non famose", quindi è puramente casuale che personaggi come Brian Eno o David Gilmour si siano trovati a suonare nei miei album. Per me la musica, soprattutto ora. è prima di tutto "compagnia": è qualcosa di concreto e di vivo, non è un'idea astratta. Di conseguenza le persone che vengono a suonare sui miei dischi sono persone che stimo profondamente: sono degli amici con i quali mi piace trascorrere intere giornate insieme. Ogni brano di "Cuckooland" - così come ogni brano di "Shleep" - è stato registrato con una formazione differente, ma tutto questo non ha fatto altro che aumentare la spontaneità delle canzoni a cui abbiamo dato vita. Oltre ai nomi che hai citato, sul disco suonano musicisti poco noti ma eccellenti come Gilad Atzmon, Yaron Stavi, Jennifer Maidman: persone con cui è stato davvero un enorme piacere suonare ed improvvisare in studio».


- Alcune canzoni dell'album sono firmate da Karen Mantler. Puoi dirmi qualcosa in più su di lei, e su questa collaborazione?

«Karen Mantler è la figlia dei jazzisti Michael Mantler e Carla Bley, da sempre miei grandi amici. A dire il vero lei da ragazzina non amava il jazz e la canzone: la sua attitudine era piuttosto punk. Karen però è sempre stata un'autrice nonché una musicista straordinaria: ho sempre notato che la sua sensibilità compositiva era in qualche modo simile alla mia. Le quattro canzoni che mi ha proposto mi sono piaciute da subito e dunque ho deciso di suonarle insieme a lei e di includerle sull'album. In progetto c'è anche l'idea di un suo album solista prodotto da me, che conterrà anche le versioni originali dei suoi quattro brani, ma è ancora presto per parlare di questo lavoro, che al momento è ancora allo studio...».


- "Old Europe" è un ricordo vivido e toccante della fugace storia d'amore tra Juliette Greco e Miles Davis. Tutto il brano riflette le atmosfere e i suoni della Parigi degli anni '40: puoi dirmi qualcosa in più su questa canzone che può in un certo senso suggerire l'idea di un cortometraggio sull'amore e sulla musica?

«Qualche giorno fa stavo proprio parlando di questo con Gilad Atzmon, che suona il sax su "Old Europe". In effetti questo brano narra una storia, e come tale può ricordare lo spazio circoscritto di un piccolo film. La storia di questo brano nasce da un ricordo personale che risale a quell'epoca: mio padre era un grande appassionato del cinema francese classico, e dunque l'immagine della Parigi di quegli anni mi ha sempre ispirato molto. Le parole del brano, comunque, le ha scritte Alfie, ispirandosi al ricordo di quella storia d'amore tra due personaggi noti al grande pubblico. La canzone è dedicata a Mike Zwerin, un grandissimo musicista jazz newyorkese che suonò spesso con Miles Davis e, come lui, si trasferì in Europa nel Dopoguerra. Ebbi modo di conoscerlo e di suonare con lui a fine anni '60 e porto ancora dentro me il ricordo del suo forte legame con la "Vecchia Europa" degli anni '50, la cui scena jazz era molto più cosmopolita e culturalmente matura di quella americana, che in quel periodo era limitata dalle chiusure del Maccartismo. Parigi era il centro di questo mondo, e i film di Louis Malle, di Godard e di altri registi catturano alla perfezione quel fermento jazz così vivo, in cui si colloca anche la vicenda di Miles Davis e Juliette Greco».


- Il testo di "Lullaby For Hamza" richiama alla mente una pagina della nostra storia recente, terribile e ancora non completamente voltata: la guerra contro l'Iraq. L'atmosfera di questo brano è commovente e molto "impressionistica": è il frutto di una reazione immediata alle notizie che provenivano da Baghdad?

«La canzone è in parte ispirata ad un articolo apparso su "The Guardian". Alfie si è identificata fortemente in questo brano, e ha voluto esprimere la necessità di qualcosa di innocente che si contrapponesse al rumore delle bombe. Così è nata l'idea della ninnananna per un bimbo iracheno, un piccolo bagliore di speranza contro l'orrore di una guerra paradossale e ingiustificabile, che è stata dichiarata nonostante in Iraq non ci fosse mai stato il benché minimo segno di ostilità nei confronti del mondo occidentale!».


- Il tema del mondo arabo torna anche in "La Ahada Yalam", che punta l'attenzione sul conflitto palestinese-israeliano...

«Ho conosciuto questo brano del cantautore israeliano Nizar Zreik tramite un disco di sua moglie, Amal Murkus. Mi sono innamorato di questa canzone a tal punto da pensare di inserirla nell'album: unico ostacolo il fatto che la versione originale fosse in arabo, e per me cantare in questa lingua purtroppo è impossibile. Da questo, dunque, è nata l'idea di farne solo una versione strumentale, "traducendo" le parole in un nuovo arrangiamento. La cosa più bella legata a questo brano è stata la possibilità di eseguirne la musica insieme a due musicisti israeliani come Gilad Atzmon e Yaron Stavi, che hanno fatto proprio il significato di una canzone che inneggia alla pace in una terra martoriata come quella tra Palestina e Israele. La resa del brano mi ha soddisfatto a tal punto da farmi decidere di inserirlo in fondo alla scaletta, in modo che dopo queste note così malinconiche ma serene non ci fosse nient'altro».







- "Insensatez" è il tuo tributo ad Antonio Carlos Jobim, e forse è l'unica canzone d'amore "propriamente detta" di quest'album. Da cosa è nata la scelta di includere questo brano?

«Jobim è sempre stato uno dei miei autori preferiti: la musica popolare brasiliana della sua epoca è stata una mia fissazione fin da quand'ero ragazzino, e credo mi abbia influenzato molto. "Insensatez" è un brano che ho sempre amato: mi intriga molto l'idea dell'"insensatezza d'amore" espressa dal cantante che si contrappone alla "sensatezza" di chi ascolta. Secondo me il testo di questa canzone trasmette una visione molto matura nei confronti dell'amore. La scelta di interpretare il brano di un autore così popolare potrebbe suonare strana a qualcuno ma per me l'unica cosa importante è fare i miei dischi nel miglior modo possibile, dando spazio a ciò che più mi emoziona...».


- Le canzoni incluse in "Cuckooland" appaiono meno strutturate rispetto a "Shleep" e potrebbero suggerire un parziale ritorno alle atmosfere di "Rock Bottom ". L'ispirazione jazz è presente in quasi tutte le tracce, mentre i suoni morbidi della bossanova e di certa elettronica appaiono di tanto in tanto. Cosa puoi dirmi dei tuoi ascolti recenti? Cosa apprezzi in particolare nella musica di oggi?

«Apprezzo molto la musica di oggi, anche se devo dire che le mie influenze odierne sono più un frutto del caso che di una vera intenzione. Mi è piaciuto molto, ad esempio, poter cantare nel disco della "vostra" Cristina Dona, così come mi ha fatto piacere che una band come i Gorky's Zygotic Mynci - che apprezzo molto - abbia interpretato alcuni miei brani. Mi piace molto, poi, il nuovo pop "nero" inglese, che secondo me negli ultimi anni è riuscito a diversificarsi molto da quello americano. In realtà, però, nella maggior parte del mio tempo libero preferisco ascoltare i vecchi dischi jazz della mia collezione, che riescono a riportarmi ad un periodo storico - quello degli anni '50 e '60 - al quale sono molto legato. Nei dischi di John Coltrane di quell'epoca, ad esempio, c'è un oceano di idee: ammiro immensamente l"'incertezza" e l'incompiutezza di quelle improvvisazioni free, che per me rasentano la perfezione! Con ciò non voglio però dire che nella musica di oggi non ci siano più lo spirito di avventura e di ricerca di un tempo: è solo che il mio modo di vedere e di vivere la musica è necessariamente legato a un'epoca che pian piano si sta allontanando...».


- La durata totale di "Cuckooland" supera i 75 minuti ma l'album è diviso in due parti separate, che ricordano per certi aspetti la suddivisione in due movimenti di "Ruth Is Stranger Than Richard". C'è una particolare ragione per questa scelta?


«A registrazioni concluse ho pensato che il materiale inciso fosse troppo per un solo disco. Per un attimo ho pensato di realizzare un doppio album ma poi ho creduto fosse più saggio inserire una "pausa" tra la prima e la seconda parte del disco. In questo modo è come se l'ascoltatore avesse davanti due dischi anziché uno: il mio invito, infatti, è quello di iniziare l'ascolto indifferentemente dal primo oppure dal nono brano. E' anche per questo motivo, e per questa "indecisione d'ascolto", che ho deciso di intitolare le due partì "Neither Here..." e "...Nor There" (ovvero "Né qui... " e "...Né lì". Ndr)».


- Per concludere, rimane il grande desiderio di rivederti ancora su un palcoscenico in Italia...

«Mi spiace ma credo sarà impossibile. Io ho una terribile paura del palcoscenico: non riesco proprio più ad esibirmi davanti a un pubblico. Ai tempi di "Shleep" ho provato a tornare alle esibizioni live ma non mi sono trovato granché a mio agio: mi spiace molto ma per ora dovrete accontentarvi dei miei dischi e delle mie canzoni registrate...».

 



The End Of An Bar (Cbs, 1970). RR
L'inizio di tutto. Ma anche, per certi aspetti, l'epitaffio del Canterbury Sound "classico" (le esperienze Soft Madrine e Matching Mole sono solo lontane parenti di questo lp) che, lasciandosi in parte alle spalle le coloriture jazz e prog, cede il passo a qualcosa di ancor più smaccatamente avanguardistico. Un disco dalla fruizione ostica, largamente incompreso e sicuramente controverso, che presenta il Wyatt solista come uno dei più originali sperimentatori dei primi Seventies.

Rock Bottom (Virgin, 1974). RRRRR
"Rock Bottom" è il risultato di una parabola discendente e di una ascendente. In una maledetta notte del 1973, infatti, Wyatt vola giù da un balcone nel bel mezzo di un party psichedelico: la frattura della colonna vertebrale lo costringerà per tutta la vita su una sedia a rotelle. Ma, quando tutto sembrava perduto, il destino decide di "metterci una pezza" e Wyatt, aiutato dalle amorevoli cure della moglie Alfreda Benge e dalla sincera amicizia di un gruppo di compagni di strada vecchi e nuovi (Fred Frith, Hugh Hopper, Ivor Cutler, Richard Sinclair, Mongezi Feza, Gary Windo, Laurie Allan e il giovane Mike Oldfield), nel giro di pochi mesi è in grado di dare alle stampe uno dei lavori più profondi e sofferti dell'intero cantautorato anni '70. Ed è proprio pescando nel "fondo del rock" che Wyatt ritrova sé stesso: ritrova la voglia di vivere, la forza di esibirsi dal vivo (memorabile il suo concerto "solo" al Drury Lane Theatre) e soprattutto una capacità compositiva di rara suggestione, capace di fondere gli sperimentalismi degli esordi con un nuovo, commovente mood melodico dettato da mesi passati nel dolore più buio. Estremamente coeso e impossibile da isolare in momenti distinti, l'album è un viaggio surreale e metaforico nelle profondità dell'animo umano, un'incursione subacquea nei sentimenti più interiori e personali che, come in un racconto filmico, vengono fuori uno ad uno lasciando nell'ascoltatore una strana sensazione subliminare. La magia di episodi come l'ammaliante "Sea Song", la seducente "A Last Straw" e il singolare chiasmo che racchiude le sognanti "Little Red Riding Hood Hit The Road", 'Alifib", "Alife" e "Little Red Robin Hood Hit The Road", infatti, non si può descrivere con semplici parole.

Ruth Is Stranger Than Richard (Virgin, 1975). RRRR
Continuazione a tutti gli effetti di "Rock Bottom" (molti brani appartengono alle sessions del disco precedente), "Ruth Is Stranger Than Richard" non riesce forse a ripetere la magia del suo stupendo predecessore ma ammalia spesso e volentieri. Suddiviso in due movimenti ("Richard" e "Ruth"), l'album si dipana su trame maggiormente jazz-orinented e rag-giunge probabilmente il suo culmine nell'oscura "5 Black Notes And 1 White Note" (rilettura della "Barcarola" di Offenbach) e nella resa di "Song For Che" di Charlie Haden.

Nothing Can Stop Us (Rough Trade, 1981). RRR
Raccolta di singoli usciti negli anni precedenti, "Nothing Can Stop Us" racchiude covers eclettiche ed originali (si va dallo standard di Billie Holiday "Strange Fruit" ai canti politici "Caimanera" e "Bandiera Rossa", da "Arauco" di Violeta Parra a "At Last l'm Free" degli Chic), toccando il momento più memorabile in "Shipbuilding" di Elvis Costello, commovente ballata sulla guerra delle Falkland, aggiunta nella seconda stampa del disco. Molto bello anche l'unico brano a firma Wyatt, "Born Again Cretin".

Old Rottenhat (Rough Trade, 1985).
RRR
Primo album in studio dopo ben dieci anni, "Old Rottenhat" calca pesantemente la mano sul tema politico e ricorda al mondo l'esistenza di guerre nascoste ("East Timor"), i pericoli dell'imperialismo e dei media ("The United States Of Amnesia", "The British Road", "Mass Medium") e così via. L'album, seppur discontinuo, apre una seconda fase nella carriera di Wyatt, caratterizzata da un maggior ricorso al formato-canzone e da atmosfere sempre più intimistiche e malinconiche.

Dondestan (Rough Trade, 1991). RRR
Concepito in coppia con la moglie Alfreda Benge (che in quest'album è l'autrice di quasi tutti i testi), "Dondestan" abbandona parzialmente la tematica politica (che rimane comunque protagonista in "Left On Man", "Lisp Service" e "New Information Order"), preferendo planare su territori lirici e sonori più astratti e sognanti (indimenticabili le atmosfere sospese di "The Sight Of The Wind" e "Catholic Architecture") che richiamano in parte "Rock Bottom".

Shleep (Hannibal / Rykodisc, 1997). RRRRR
L'album della definitiva "scoperta" di Wyatt arriva solo nel 1997, grazie alla Rykodisc che rilancia in grande stile la carriera del musicista inglese. Accompagnato da un cast di stelle (Brian Eno, Paul Weller, Evan Parker, Phil Manzanera...), Wyatt fa il suo ritorno con un saggio d'eleganza d'altri tempi: scintillante negli arrangiamenti, geniale nelle melodie, "Shleep" è una parata di classici. Impossibile non citare "Heaps Of Sheeps", "Free Will And Testament", "A Sunday In Madrid" e la meravigliosa "Maryan". Uno dei dischi fondamentali degli anni '90.

Cuckooland (Hannibal / Rykodisc, 2003). V. recensione a pag. 45.

RM

       
     
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