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 Robert Wyatt - Artista in piena libertà ma con aiuti dal jazz - Musica Jazz Anno 60 - N° 5 - Maggio 2004


Robert Wyatt - Artista in piena libertà ma con aiuti dal jazz



 



Molto spesso il cantante, compositore e
strumentista inglese ha fatto ricorso ai
campioni dell'improvvisazione: ieri Mongezi Feza o Evan Parker, oggi Annie Whitehead o Karen Mantler.







Audio version of the interview by Alessandro Achilli from Radio Popolare
(06/09/2003)

The complete paper version of the audio interview.






Com'è nato il tuo ultimo album, "Cuckooland"?

Ho pensato: "Nel 2005 avrò sessant'anni! Se non faccio qualcosa, il futuro è adesso". Sono sorpreso di essere tuttora qui, nel nuovo secolo: stavo giusto incominciando ad abituarmi all'altro ed ecco che mi prendono e mi buttano in uno nuovo, apparentemente simile ma bizzarro. Mi sento come depositato in uno strano luogo. A parte ciò, ho sempre accumulato schizzi, bozzetti: ci lavoro su per un mese o due, a casa, finché‚ qualcosa non m'interrompe. Ma pian piano accumulo materiali. E poi ci sono sei brani non scritti da me né da Alfie, tre dei quali sono della mia amica Karen Mantler.

Come hai lavorato con lei?

Karen vive a New York ma nel 2002 è venuta in Europa con la band di sua mamma, Carla Bley, e per un concerto con Peter Blegvad a Ferrara. Si è fermata un po' da suo papà Mike e ne abbiamo approfittato per incidere insieme sei o sette canzoni scritte da lei: un buon modo per cominciare le registrazioni di "Cuckooland", perché c'erano le strutture, gli accordi e dovevo soltanto trovare un simpatico suonaccio di sintetizzatore. Benché in Europa i suoi dischi siano usciti quasi tutti per l'Ecm (licenziataria della Watt di Carla Bley), ho pensato che quelle canzoni non richiamassero alla mente le cantanti Ecm o l'ambito in cui lei lavora; e che sarebbe stato interessante decontestualizzarle, senza preoccuparmi di essere "corretto" e di non stravolgere, per esempio, le melodie. Perciò ho inserito in "Cuckooland" le sue canzoni di cui già esiste su disco la versione originale incisa da lei a modo proprio. così , chi non apprezza la mia interpretazione può recuperare gli originali: Beware e Mister E vengono da "Farewell" (X-traWatt), mentre Life Is Sheep da "Pet Project" (Virgin francese, che però non l'ha fatto circolare molto). Per le altre (che comunque non abbiamo concluso), aspetterò fin quando Karen non pubblicherà le proprie versioni.

Insieme interpretate anche Insensatez di Antonio Carlos Jobim e Vinicius de Moraes.

Ciò che mi piace della voce di Karen è che non corrisponde all'idea che si ha comunemente di una cantante jazz e certamente non è una cantante rock; possiede una specie di assoluta e spontanea chiarezza, semplicità, modestia. Trovo il suo modo di cantare molto in sintonia con il mio. Mi ricordava Astrud Gilberto e così ho voluto vedere se funzionava su Insensatez: direi proprio che - si - è nelle sue corde. Ho deciso di usare un ritmo che non fosse esattamente bossa nova e neppure un beat moderno; abbiamo ridotto il tutto a un disegno minimo di accordi e così via. È uno dei brani in cui si sente il karenotron, cioè la voce di Karen campionata su tutta la scala e suonata tramite una tastiera. È uno strumento, che è Karen: questo mi piace. L'ho chiamato così perché è un po' una versione evoluta del mellotron che suonavo con i Matching Mole. Lotto sempre contro la purezza degli strumenti elettronici, tentando di sporcarne il timbro.



Robert Wyatt in un ritratto del settembre 2003 e, a fronte,
visto da Alfie (sua moglie,
la pittrice Alfreda Benge)
sulle copertine di "Dondestan", "Shleep" e "Flotsam Jetsam".

Come hai scelto i musicisti ospiti e come hai impostato il rapporto con loro?

In genere cerco di incidere i dischi in modo completamente autonomo e quindi sono preparato a lavorare da solo, com'è accaduto in "Old Rottenhat", "Dondestan" e nella gran parte di Moon In June. Adesso registro io le parti di voce, pianoforte, tastiere, tromba, cornetta, batteria e poi mi chiedo: "Di che cosa ha ancora bisogno questa canzone?". Non penso necessariamente a uno strumento ma a un musicista, perché se tra noi c'è un'intesa, un'empatia, quasi non importa che cosa suoni o in quale idioma suoni. Oggi come oggi, la prima cui mi rivolgo è Annie Whitehead, che è molto versatile: suona il trombone con Roswell Rudd e partecipa a concerti di free jazz ma anche a dischi delle Spice Girls o reggae e a parecchie altre cose. Tecnicamente ha una formazione molto più accademica della mia e così può aiutarmi ad analizzare meglio le mie canzoni, che molto spesso butto giù a istinto. Talvolta le indico in quali punti suonare oppure le chiedo solamente di darmi una mano con l'armonia. In Just A Bit volevo che entrasse intorno a metà brano per rafforzare le tastiere ma senza dare l'idea di uno strumento del tutto diverso: soltanto un'aggiunta discreta. Poi le ho detto: "Sul finale la voce si piega un paio di volte e tu potresti fare qualcosa di simile con il trombone", senza specificare che cosa. In Lullaby For Hamza ho arrangiato un paio di linee armoniche discendenti del trombone e ho voluto soltanto che registrasse tutta la canzone in una volta sola; lei suona la melodia più o meno come la canto io e poi, una o due strofe dopo, Jennifer Maidman (cui avevo chiesto: "Potresti suonare per tutto il brano? Questi sono gli accordi e questo è ciò che faccio io") improvvisa un assolo di fisarmonica. Registro tutto per conto mio e poi lavoro con gli altri individualmente, uno alla volta: "Potresti mettere qualcosa in questo spazio che ho creato?". Il più delle volte hanno molta libertà, anche se so dove li voglio, perché li voglio, quale suono voglio. In Insensatez l'armonica di Karen si limita a riprendere la melodia, perché volevo tenermi l'assolo per qualcos'altro. Non mi va che un disco sia una mera serie di assoli: ce ne sono ma volevo che fossero nei momenti giusti e così in quella bossa nova ho mantenuto uno stretto controllo su tutto tranne che sul finale, dove ho semplicemente chiesto a Gilad Atzmon di suonare, al clarinetto; e quindi si crea una sorta di tensione.

Annie Whitehead ha anche riarrangiato un bel po'di tue canzoni nel suo progetto Soupsongs: quel suo approccio ai tuoi materiali ha avuto a sua volta un'influenza sul tuo modo di comporre e arrangiare, quando ti sel dedicato a un nuovo disco?

Non ci avevo pensato ma credo che una delle ragioni per cui oggi arrangio i miei brani in questo modo sia l'aver ascoltato come Annie ha fatto suonare la mia musica da quella band. Annie, Janette Mason, Liam Genockey e gli altri membri di Soupsongs hanno trovato un elemento jazz nelle mie canzoni (anche se non l'avevo pensate come jazz), una specie di fluidità, che forse avrei voluto io fin dal principio se avessi lavorato con un gruppo. E questo mi ha incoraggiato. Alfie mi ha detto: "Potresti lavorarci sopra; non devono essere soltanto gli altri a farlo". Quando qualcuno reinterpreta le mie canzoni, le riascolto alterate da idee e prospettive differenti e, quando mi rimetto al lavoro, ho un'idea più ampia di come potrebbero essere.

In "Cuckooland" ci sono tanti ospiti ma tu stesso suoni di più.

Ho esteso le parti di batteria che prima suonavo soltanto con spazzole e piatti: ho cercato d'immaginare modi differenti di creare trame ritmiche e di tenere il tempo. Adesso vivo nel nord dell'Inghilterra ma fino a una quindicina d'anni fa abitavamo in un appartamento più vicino a Londra e meno spazioso: era carino ma i vicini si lamentavano se facevamo rumore e così la mia musica divenne sempre più essenziale, una specie di musica da camera da letto. Mi sta bene: posso lavorarci su come un monaco amanuense nella sua cella, inventando soluzioni come "Old Rottenhat". Invece nello spazio che ho adesso posso tenere tutti i miei piatti, il pianoforte, le percussioni, la tromba... E mi godo la possibilità di suonarli davvero. Faccio più rumore, più spesso: negli ultimi anni ho ritrovato sempre più il puro e semplice piacere fisico di suonare. Negli ultimi dieci anni mi sono poi dilettato a suonare la cornetta (partendo dalla tromba, cui m'ero dedicato per un paio d'anni quando ne avevo sedici) e improvvisamente ho scoperto che riesco a sentire meglio le note: forse ora conosco meglio la musica. E mi diverte molto, a casa, impratichirmi facendo karaoke con la tromba su ballad jazzistiche lente (mi danno il tempo di trovare la tonalità): Sarah Vaughan e cose del genere.

A quali trombettisti o cornettisti t'ispiri?

Be', alcuni sono proprio ovvi ma il mio principale ispiratore è Johnny Coles, che a partire dal 1958 lavorò con Gil Evans quando il trombettista non era Miles Davis, rispetto al quale Coles ha un modo di suonare più lieve, "domestico", cauto; in un certo senso è più vicino a Chet Baker ma è molto particolare. Tra i dischi che Coles incise con Evans, è davvero bellissimo "Out Of The Cool", dove c'è anche Jimmy Knepper al trombone. Lo consiglio caldamente anche a chi non saprebbe dire se gli piaccia il jazz: è jazz ma è come pura melodia dall'inizio alla fine.

Nell'idea dl abbinare una tromba alla tua voce ha avuto qualche peso il ruolo di Mongezi Feza nei tuoi dischi degli anni Settanta?

Immagino di si. Non mi sono mai trovato a mio agio con il solito voce-chitarra del rock. L'apprezzo quando sono altri a farlo e conosco bravi chitarristi rock - Mike Oldfield, Paul Weller, David Gilmour, Phil Manzanera. . . - ma sento che il complemento naturale della mia voce sia una tromba. Nella mia testa, l'abbinamento ideale è sempre stato quello con Mongezi, che morì quando avevamo entrambi trent'anni. Alla fine mi sono rassegnato a occuparmene personalmente.

Feza era uno dei jazzisti sudafricani che giunsero in Gran Bretagna negli anni Sessanta...

Il loro arrivo fu molto importante per Londra. Negli anni Trenta-Quaranta, il jazz era stato una sorta di popular music (comprendente anche ballo e canto) ma pure il luogo di un'incredibile espansione nelle idee armoniche, ritmiche e melodiche. Nei decenni successivi parve che si potesse solamente imboccare una strada o l'altra: o diventare una specie di orchestrina da ballo o addentrarsi nelle zone inesplorate del jazz, come per esempio l'improvvisazione totale. Fu allora che giunsero a Londra i sudafricani, i quali semplicemente facevano entrambe le cose e pure bene, come Dudu Pukwana e Mongezi che potevano felicemente suonare township music per tutta la notte - meravigliosa musica da ballo, musica per la comunità - e poi, rimanendo interamente se stessi, dedicarsi con la massima partecipazione al più sfrenato free jazz con Paul Rutherford, Evan Parker o Keith Tippett. Fu davvero una forza guaritrice. Portarono a Londra una tale joie de vivre (lo so: è un'espressione sciocca) che tutti li amarono. Per me e per moltissime persone con cui ho sempre lavorato o lavoro fu un grande momento. Annie Whitehead amava suonare con Dudu più che con chiunque altro. Harry Beckett, un bravissimo trombettista delle Barbados, fu come fulminato da Mongezi, non per la tecnica ma per il feeling, il timbro, l'intensità, la serietà con cui suonava; persino oggi gli vengono gli occhi lucidi quando lo ricorda. È insolito che un gruppo così piccolo di musicisti abbia un impatto così forte, specialmente in una città come Londra, tanto cauta e paranoica verso i nuovi arrivati: c'era una sorta di competitività, che i sudafricani spazzarono via.

Quali sono i tuoi batteristi preferiti?

Le registrazioni più antiche che ho sono quelle di Baby Dodds con Armstrong e altri: mi appassiona tutta la storia di quella che è diventata la batteria jazz, nata all'inizio del Ventesimo secolo riunendo gli strumenti a percussione delle marching bands di New Orleans (cassa, rullante, piatti. . .). Negli anni Quaranta ha incominciato a sviluppare un ruolo più fluido e ambiguo, non limitandosi più a marcare chiaramente il tempo. Verso la metà del secolo i jazzisti presero a inventare giochi interessanti con il tempo e l'armonia, cosicché ciascuno girava attorno alla melodia ma al tempo stesso la evitava, per così dire. Si affermarono Kenny Clarke, poi Max Roach e uno dei miei preferiti: Danny Richmond, il batterista di Mingus. È quello il periodo che davvero ispirò la mia decisione di suonare la batteria. In seguito il drumming del rhythm'n'blues (molto più simile a quello netto e solido come roccia del jazz delle origini) ritornò attraverso il rock'n'roll. Apprezzo molte cose del rock e le uso ma preferisco sempre quella sorta di ambiguità dei miei batteristi jazz preferiti. Per esempio, quando Elvin Jones suona tre o quattro battute d'introduzione a un nuovo assolo, è probabile che aggiunga anche una battuta extra, esattamente dopo il beat. Rovescia il beat come un calzino. Quindi i suoi partner devono realmente fare attenzione a dove si trovi. Amo i batteristi che non stanno mai sul beat ma ci giocano sotto, sopra, a lato! Ed è per quello che non suono davvero la batteria in modo rock; ciò che faccio è sempre meno rock e sempre più simile a uno schivare il traffico. Rallentando, accelerando, esitazioni: sono il mio pane. E mi pare che siano la cosa giusta per le mie canzoni.

Mi dicevi anche qualcosa di Jimmy Cobb...

Un tempo non m'interessava molto Cobb - né Billy Higgins e altri batteristi "regolari" - perché ha uno stile assai semplice. Ma, quando ho tentato di riprendere la batteria dopo essere diventato paraplegico, ho pensato: "Che cosa posso realmente fare?" , perché ovviamente non posso usare charleston e cassa, e così in tempi recenti ho incominciato ad ascoltare batteristi che facciano un uso minimo del charleston ma nondimeno swinghino e siano realmente completi. Mi sono interessato di più alla mera magia del percuotere, del tenere il tempo: dèn dèn-ghedèn dènghedèn. Da giovane cercavo sempre nuovi giochi percussivi. Adesso m'interessa particolarmente quel modo liscio, piano, di tenere il tempo che avevano Cobb e Higgins, soprattutto perché è divenuto un anacronismo: in Trickle Down suono din dinghidin' tinghidin tsinghidin; nessuno suona più un jazz così regolare. Cobb non è stato mai veramente apprezzato quanto meriterebbe, perché Davis ebbe batteristi spettacolari prima e dopo di lui, che così venne considerato semplicemente il tipo regolare nell'intervallo tra essi. Ma in realtà Davis incise alcuni dei propri dischi più belli nel periodo con Cobb, proprio perché questi lasciava così tanto spazio. In genere, chi ascolta "Kind Of Blue" (probabilmente il disco più fortunato di Davis) non resta colpito dalla bravura di Cobb, a meno che non sia lui stesso un batterista: io, da batterista, posso sentire che cosa non fa.

In Trickle Down e Old Europe la prospettiva jazzistica è più esplicita di quanto non sia mai stata nei tuoi album solistici.

Old Europe è un'evocazione del periodo della mia gioventù in cui scoprii il jazz, che stava ancora inventando se stesso. In Trickle Down volevo invece rovesciare un paio di consuetudini. Non amo affatto la fusion; molti se ne sorprendono perché ho un po' un piede nel jazz e uno nel rock ma proprio non mi dice nulla l'idioma musicale chiamato jazz rock: di solito, si tratta di jazzisti che si fanno crescere un pochino i capelli, adottano titoli spirituali per i propri album e fanno assoli su quello che pensano sia un ritmo rock (e in genere lo è ma suonato in modo molto virtuosistico e tuttavia con l'aria di chi fa girare i pollici). Non voglio insultare nessuno; è semplicemente una sensazione personale. Lo ho voluto invece ignorare del tutto la componente rock del jazz rock: al suo posto ho messo una fluida linea di basso walking, sulla quale non c'è alcun assolo vero e proprio. Ritmica e solisti si scambiano i ruoli: l'evento principale è la ritmica, le cui trame timbriche sono tessute dagli aggeggi di Eno, mentre gli assoli sono soltanto piccoli frammenti spezzettati, ricordi di assoli jazz sparsi tra i piatti.



Robert Wyatt con Annie Whitehead,
Londra 1999.

I solisti non sono mai stati la tua passione...

Fin dai miei primi ascolti di jazz, soprattutto di modern jazz, mi sembrava di non capire gli assoli. Tutte quelle note, così veloci: non sapevo cosa fossero e non riuscivo ad ascoltarle. Ma ero affascinato dalla musica e dalla sua urgenza: quella combinazione di abbandono e rigorosa disciplina. Soprattutto, ciò che mi rese capace di ascoltare con autentico piacere fu il fatto che capissi le melodie poste all'inizio e alla fine di ogni brano jazz di quei giorni. In quanto melodie le si poteva imparare, cantare. È l'elemento canzone, che nel jazz è usato solamente come una specie di trampolino, per preparare il terreno al solista creando una sequenza di accordi e un ritmo. Lo invece amavo quei temi di per sé. Ed è ancora così: alcune delle mie canzoni mi sembrano trampolini per assoli jazz che poi non arrivano.

Hai anche registrato tue versioni di classici del jazz, sebbene arrangiati in un modo che non è esattamente jazz. Quali altri ti piacerebbe rivisitare?

Non saprei. Quando interpreto musica altrui, cerco un elemento puramente musicale che possa essere decontestualizzato. Qualunque brano - una canzone di Buddy HolIy, una bossa nova, una composizione di Monk - è associato a un determinato genere ma una melodia davvero bella dovrebbe essere abbastanza robusta da poterla sentire come nuova se si cambia idioma. M'è sempre garbato farlo. Se vivessi in salute per altri cent'anni, dedicherei un lungo progetto alle bellissime composizioni di Thelonious Monk: sarebbe delizioso rivisitarle tutte (una cinquantina) in modo non jazzistico, come miniature, quasi come certe brevissime pagine "aforistiche" di Anton Webern (e anche di Alban Berg).

Nonostante il tuo amore per il jazz, fai una musica che non viene definita jazz, neppure da te.

Be', prendiamo la musica andalusa: Cante hondo, flamenco... Ne troviamo tracce nei compositori non solo spagnoli ma anche francesi e in altri ancora ma alla fine il flamenco è flamenco: fondamentalmente è musica gitana spagnola ed è la loro lingua, inventata da loro. Le mie radici sono in una sorta di pop inglese e quindi non nella medesima cultura di Louis Armstrong e John Coltrane: la uso come una musa tra gli elementi che possono essere agevolmente tradotti e inseriti nella mia musica ma non tento di assumere un accento musicale statunitense. C'è chi ci riesce e talvolta lo desidero anch'io. L'ho anche fatto: per esempio, è evidente che in Old Europe suono la tromba evocando un certo jazz e che Gilad fa esattamente ( e meravigliosamente ) lo stesso al sax tenore. C'è anche chi riesce a impadronirsi di un'altra lingua: quella di Joe Cocker è una versione per lui perfetta di un modo di cantare à la Ray Charles. Per lui funziona e non è un limite ma l'idea di cantare a quel modo viene interamente da Ray Charles. Personalmente, alla lunga mi sento a mio agio soltanto quando faccio qualcosa con la mia voce, davvero a modo mio.

Comunque hai suonato con jazzisti importanti: per esempio con Paul Bley, nel 1971.

Proprio cosi: Con il grande Paul Bley, anche se ero troppo emozionato per rendermene conto. Era in tour Con Annette Peacock (all'epoca stavano insieme), la quale scopri che ero a zonzo; pensarono che fosse simpatico chiedermi di suonare la batteria con loro e io accettai. Il concerto si tenne al Country Club; lui aveva un muro di sintetizzatori e lei faceva esperimenti con la voce. Erano molto in anticipo sui tempi. Ero terrorizzato da Bley. Era grande amico di un altro canadese che sarebbe diventato mio amico: Paul Haines, il poeta che ha lavorato con Carla Bley e molti altri. Ma, essendo appena stato cacciato dai Soft Machine, ero proprio impaurito dai musicisti: "È ovvio che non ho i requisiti per lavorare con alcuno di loro". Quindi mi sentii davvero onorato dalla proposta di Annette, cui sarò sempre grato, perché mi aiutò a riguadagnare fiducia in me stesso. Fu meravigliosa. Da allora siamo rimasti sempre amici e ci teniamo tuttora in contatto.


In Old Europe si accenna alle "Indigo nights": è per caso un riferimento a quando, giovanissimo, suonasti per un'estate (nel 1964) come batterista con la ritmica residente dell'Indigo Jazz Club di Palma de Maiorca?

Non ci avevo pensato. All'lndigo c'era Ramón Farran: per me fu una sorta di mentore e io lavorai un pochino nel suo club. Suonavo, anche, ma per lo più distribuivo dépliant ai turisti e cose così. Il testo di Old Europe è di Alfie, che ha inserito certe immagini, brevi frasi in francese, parole tipiche del jazz di quegli anni, per fornire un contesto, un quadro generale. Per esempio trovi la parola "indigo" in Mood Indigo (eccone un'altra con cui mi cimenterei: bellissima melodia). Alfie è una pittrice e l'indaco è un colore particolare per lei. Inoltre conosce bene il jazz che amo, conosce Parigi e conosce quel periodo (siamo più o meno della stessa generazione). Ha un modo unico di scrivere e semplicemente funziona per me.

Quali sono i tuoi preferiti tra gli autori di canzoni?

Una canzone è fatta di parole e musica; ma alla fine ritengo che la cosa importante sia il suo suono. Quando scrive le parole di una canzone, Alfie sa che non funzionano come in una poesia. un buon testo di canzone non è necessariamente una bella poesia. Nell'ultimo anno non ho ascoltato tanta musica perché ho passato tutto il tempo a lavorare con Karen (ecco uno dei miei autori preferiti), Alfie e compagnia bella, e quindi per poter procedere ho spinto sullo sfondo le cose che ho ascoltato nel passato e da cui ho imparato nell'università del mondo, e mi sono invece concentrato di più sulle persone attorno a me e su ciò che facevamo. Perciò non mi vengono in mente tutti i miei preferiti ma. . . Be', Antonio Carlos Jobim e altri autori brasiliani. Cole Porter, perché era molto bravo sia con la musica sia con le parole. I fratelli Gershwin: fantastici. Randy Newman, che ha scritto più di trent'anni fa la miglior canzone sulla situazione attuale - Political Science, sulla politica estera statunitense - e una bellissima Gods Song. Kurt Weill e Bertolt Brecht: la perfetta combinazione tra rigore delle parole e rigore della musica; Weill scrisse bellissime arie anche dopo gli anni berlinesi - ne ho cantata una, September Song - ma i frutti meravigliosi del sodalizio con Brecht restano ineguagliati.

Quali dischi ascolti di plù?

Be', per esempio Gilad Atzmon ha inciso con Yaron Stavi e altri un disco intitolato "Exile". Nei primi due brani c'è Reem Kelani, una cantante folk palestinese che vive a Londra. E in tutto il disco Gilad esprime chiaramente la propria solidarietà con le persone che vengono dalla sua stessa terra ma paradossalmente hanno potuto sentirsi libere di lavorare insieme solamente quando ne sono state lontane. Gilad era nell'esercito israeliano; anche Yaron viene da Israele. Se ne sono andati perché non amavano il narcisismo spirituale. Sono jazzisti: a loro piace la libera comunicazione con tutte le culture, compresa quella araba.

Dal 1979 hai militato attivamente nel Partito comunista britannico, dal quale sei uscito una decina d'anni dopo: restando comunista?

Sì, perché l'alternativa sarebbe essere ex comunista, che è una delle professioni più codarde che si possano trovare nei media; insomma, ho troppo amor proprio per diventare ex comunista. Detto questo, mi considero comunista con la convinzione che sia ancora soltanto l'idea di una possibile alternativa di cui non si può fruire; lo stesso si può dire del cristianesimo, per esempio, ma ancora i cristiani continuano a cercare una via. Una cosa è certa: il modo in cui adesso gestiamo internazionalmente i rapporti militari ed economici porta inevitabilmente alla destabilizzazione e a conflitti senza fine. Il capitalismo è rivoluzionario, nel senso che dovunque arrivi cambia tutto, talvolta in modo positivo. Marx era molto impressionato dal capitalismo, perché muove ogni cosa e quindi si ha la possibilità di fare qualcosa di nuovo. Perciò non è onesto accusare i comunisti di essere rivoluzionari per il fatto che vogliono cambiare il mondo tradizionale: è già il capitalismo a farlo. Lo si può vedere ovunque: Africa, Sudamerica... Non può esistere un capitalismo stabile: deve sempre espandersi per sopravvivere. Conquistare di più, prendere di più. E allora le bombe che esplodono a caso nelle nostre città e gli scoppi irrazionali di odio e paura sono conseguenze inevitabili.

Alessandro Achili


 
UN GRAVE INCIDENTE NON HA FERMATO QUELLA SUA MUSICA IMMAGINIFICA


Nato nel 1945 a Bristol, Wyatt si trasferisce una decina d'anni dopo a Canterbury, dove la casa dei genitori diviene una sorta di cenacolo artistico e le musiche ascoltate sono quelle di Ceci Taylor, Schönberg, Webern, Stockhausen, Dolphy, Coleman, Coltrane, Sciostakovic, Hindemith, Bartók, Ellington, Elis, Byard, Mingus... Nel 1964 Wyatt è batterista e cantante dei Wilde Flowers: canzoni originali e covers di rhythm'n'blues, soul, pop e jazz (Cannonball, Coltrane, Ellington, Hancock, Monk, Timmons). Nel 1966 è trai fondatori dei Soft Machine (vedi recensione di "Bbc Radio 1967-1971", in Musica Jazz n.6 2003). Nel 1971 forma i Matching Mole: jazz elettrico inframmezzato da esperimenti e canzoni. Nel giugno 1973 cade da un quarto piano e perde l'uso delle gambe ma non la voglia di far musica.
Frequenti sono le presenze jazzistiche nei suoi album (in gran parte ripubblicati - o pubblicati per la prima volta - da Hannibal in Europa e Thirsty Ear negli Stati Uniti): Mark Charig, Elton Dean, Neville Whitehead, Las Vegas Tango (Gil Evans) e una dedica a Carla Bley in "The End Of An Ear" (1970); Mongezi Feza, Gary Windo e Laurie Allan in "Rock Bottom" (1974; c'è anche Hugh Hopper), "Ruth Is Stranger Than Richard" (1975; ci sono pure George Khan e Song For Che di Charlie Haden) e in alcuni degli Ep e 45 giri tiuniti in "Eps" (1999), dove appaiono anche Dave MacRae, Hopper, Memories Of You (Eubie Blake), Chairman Mao (Haden) e 'Round Midnight, Harry Beckett, Frank Roberts, Mogotsi Mothle e Strange Fruit negli altri 45 giri raccolti in "Nothing Can Stop Us" (1982); Philip Catherine, Evan Parker e Annie Whitehead in "Shleep" (1996-97); Gilad Atzmon, Yaron Stavi, Karen Mantler e Annie Whitehead in "Cuckooland" (recensito, con "Solar Flares Burn For You", in Musica Jazz n.12, 2003).
Sono incisi in solitudine "The Animals Film" (1981), "Old Rottenhat" (1984-85, con il canto più jazzistico) e "Dondestan" (1991, con un brano ispirato a Boogie Stop Shuffle di Mungus), come pure il Billie's Bounce (Charlie Parker) e il Locomotive (Monk) inseriti nell'antologia di rarità e inediti "Flotsam Jetsam" (1994; in altri brani suonano Windo, Feza, Hopper, MacRae, Jimi Hendrix, Nick Evans, Ray Babbington, Lol Coxhill, Lindsay Cooper, Jeff Clyne, Annie Whitehead).
A sua volta Wyatt ha partecipato a incisioni o concerti di jazzisti come Mike Mantler, Carla Bley, Lol Coxhill, Evan Parker, Paul Haines, Keith Tippett, Centipede, Symbiosis, Travor Watts, John Surman, John Stevens, Larry Coryell, Jean-Luc Ponty, Gary Burton, Terje Rypdal, Sugarcane Harris e altri ancora. Tutti dettagli sono in www.disco-robertwyatt.com e sopratutto in Mike King, Falsi movimenti: una storia di Robert Wyatt (Arcana, 1994).


 


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