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 Robert Wyatt - Il Sessantotto di un patafisico - Musica Jazz - N. 757 - Dicembre 2013








Di Riccardo Bertoncelli





Soft Machine prima versione si erano sciolti. Mike era tornato a Londra, Kevin si era trasferito a Maiorca. La casa discografica non sapeva dello scioglimento e fra l'altro doveva ancora pubblicare il primo lp, registrato già da sei mesi. Insomma, non avevo vincoli, e c'erano un po' di cose che volevo fare e che non potevo in una situazione di gruppo come quella di allora».

Robert Wyatt ambienta così un delizioso ed appena uscito, «'68», con quattro suoi provini registrati fra i Ttg Studios di Hollywood e il Record Plant di New York nel autunno 1968, tra ottobre e i primi di novembre. Jimi Hendrix, che ha appena condotto un tour americano con i Soft Machine di spalla, affitta quegli studi per stare dietro alla sua bulimia musicale e volentieri regala qualche ora al giovane batterista che nel corso del tour è diventato amico suo e di Mitch e di Noel. Le sedute di «Electric Ladyland» sono terminate da poco; Jimi ha altre idee ma da quelle sedute non cava granché. Robert invece spende bene il suo tempo. Mette a fuoco una serie di frammenti che gli fluttuano in testa e con il tempo prenderanno magica forma, e ha modo di metter mano a strumenti che nel quotidiano non potrebbe mai permettersi, tipo un organo Hammond su cui golosamente pasticcia. Alla fine si ritrova tre quarti d'ora di musica imperfetta ma stimolante, che sarebbe bello avere su un master ma chi può permetterselo? Si fa fare degli acetati; poi se ne dimentica e i nastri rimangono nella pancia profonda dei Ttg (che prendono il nome – forse non tutti sanno che – da un reggimento dell’esercito israeliano in cui era arruolato il proprietario degli studi, il ruvido prepotente tecnico del suono Ami Hadami).

Wyatt è un fenomeno. Giura di avere una memoria di camembert, casca dalle nuvole quando qualcuno ritrova i nastri e lui nemmeno se ne ricordava; però se lo stimoli lascia gocciolare deliziosi aneddoti e piano piano prende forma uno straordinario racconto, che da un lato avvince e dall’altro fa digrignare i denti – perché Wyatt non ha mai deciso di scrivere per bene e di persona, con la sua lingua placida, con il gas esilarante del suo understatement, le memorie della vita? A ogni modo, i Soft Machine accompagnano la Experience in giro per l’America due volte nel 1968, in primavera e poi fra agosto e settembre. La seconda volta il tour finisce in California e lì Jimi decide di fermarsi, a Los Angeles, affittando una sorta di ampio bungalow a Benedict Canyon. Ha un letto che gli avanza e generosamente lo offre a Robert. Vuole la leggenda che quello spazio servisse ai produttori di Perry Mason per le registrazioni del telefilm; ma fra una serie e l’altra c’erano pause e il bungalow veniva messo a disposizione. Il ragazzo di Canterbury si tuffa nel delirante mondo della Plastic City ma uno scetticismo molto Brit ne protegge la sanità mentale. Non ne resta abbagliato, non si fa traviare da quel teatrino di Doors e Laurel Canyon, di Zappa e Easy Rider e Crosby, Stills & Nash. Lo stesso distacco mantiene quando ai primi di novembre si muove a New York, sempre seguendo gli spostamenti di Hendrix, e scopre che «della Mecca jazz che avevo costruito nella mia immaginazione non rimaneva più nemmeno l’ombra ». Una sera fa un salto al Village Vanguard e nota per strada un poveraccio che ha tutta l’aria del mendicante. È Wilbur Ware, gli dicono, e quasi non ci crede: Wilbur Ware! Quante fantasie ascoltando il suo contrabbasso nei dischi di Art Blakey, Monk e Trane.




A New York Wyatt va a stare da una amica, Phillys, ma si tiene in contatto con Jimi che gli offre ancora ritagli di studio. Passa un paio di mesi in un appartamentino al quinto piano di un palazzo del Greenwich, con una pianola elettrica in cucina su cui continua a rifinire la sua musica, quella generata da migliaia di ascolti giovanili che cominciano a dare frutto, quella che il primo album Soft Machine ha recepito solo in minima parte. Gli piace l’idea di canzoni poco ortodosse, che si dilunghino oltre lo schema dei tre minuti classici reso obsoleto dall’avvento del long playing; temi che appaiono e scompaiono, pause, cambi di passo – senza un senso preciso, con il gusto della sorpresa. Moon In June è da subito la creatura preferita. Fra i Ttg e il Record Plant ne registra una versione piuttosto evoluta, non così distante da quella «ufficiale» per il Third che prenderà forma nella primavera 1970. È sempre un bell’ascolto, con il testo che segue le lune del momento e questa prima volta è ambientato naturalmente «in New York State», ma non è la perla del nuovo disco; perché in parte la conoscevamo già (stava sul cd di materiali d’archivio «Backwards») e perché solo la prima sezione è autenticamente «americana», il resto viene da un provino di qualche mese più tardi una volta a casa, con l’aiuto di Hopper e Ratledge.

Anche Slow Walkin’ Talk la conoscevamo, per via della stessa antologia e di varie raccolte hendrixiane, dato che il basso lo suona Jimi. È «una cosina alla Mose Allison» (per dirla come Robert nell’intervista- intro) scritta da Brian Hopper e adottata dal giovane Wyatt, che non se ne dimenticherà. Hendrix la ascolta e si offre di dare una mano, il nastrino è un bijou però finisce negli archivi, senza mai entrare nell’orbita Soft Machine. Ma a WyattLand non si butta via niente e anni più tardi, ai tempi di «Ruth Is Stranger Than Richard», ecco che con qualche ritocco quella «chiacchierata a passo lento» diventerà Soup Song – più articolata, complessa, con la voce forte di due sax.





Con i distinguo ho finito per minimizzare metà del cd, ma non vogliatemi male, anche perché l’altra metà vale da sola il biglietto. Rivmic Melodies è la prima stesura della prima facciata di «The Soft Machine Volume Two», quella che i discografici vollero cervelloticamente spezzettare in «brani», trovando a tutti i costi titoli per i diversi frammenti. Nel demo ritrovato c’è praticamente tutto, dalla Introduzione Patafisica al Pierrot Lunaire, compresa la parte dell’alfabeto inglese che però non è concisa come nella versione definitiva ma capricciosamente estesa, un gioco di echi, riflessi, rumori che allieterà l’animo dei canterburyani in ascolto. Al divertimento della musica si accompagna lo spassoso ping pong fra Wyatt e Hopper a proposito di chi ha composto cosa. Il mondo alla rovescia: Hopper sostiene che il suo nome venne usato solo per questioni di diritti, Wyatt giura che no, lui fu solo giardiniere di semini piantati dall’amico. Difficile stabilire chi abbia ragione, anche perché la memoria di Robert, lo abbiamo detto, ha four thousand holes come quelli di A Day In The Life. Quando i curatori della raccolta gli fanno ascoltare il quarto demo sopravvissuto, Chelsa, lui trasale e balbetta: mmmh, la musica dev’essere mia, e il testo non può che essere di Kevin Ayers, Chelsa era una ragazza di Canterbury che gli piaceva – però, davvero, non ricordo niente. Peccato che da ulteriori indagini emerga che il testo non è del povero Kevin ma di Daevid Allen, nella notte dei tempi Softs. In ogni caso il fascino della canzone (con un ballonzolante Hammond che fa quasi Procol Harum) non sta nei crediti bensì nello sviluppo musicale; ancora una volta nulla si perde, nulla si distrugge e qualche anno dopo, ai giorni dei Matching Mole, l’idea prenderà forma più precisa con il titolo di Signed Curtain.




In un bel libro di John McDermott con Eddie Kramer appena ristampato in Italia (Jimi Hendrix Sessions, Giunti) è scritto che Hendrix usò i Record Plant solo fino al 6 novembre 1968, per poi tornare a fare vita on the road. Quindi dobbiamo presumere che Wyatt smise di registrare intorno a quella data, e in capo a qualche settimana tornò in Inghilterra perché, parole sue, «avevo nostalgia di casa e mi mancava la pioggia». Il 1969 sarà un anno fondamentale per lui, l’anno del «Volume Two», la stagione della rifondazione Soft Machine senza più Ayers, prima in trio poi in quartetto con Elton Dean. In realtà, nonostante le prodezze, la vita di gruppo non fa per Robert e quei giorni passati in America da solo sono un riuscito esperimento e una sirena che presto lo porterà a «The End Of An Ear». Per lo smemorato protagonista, è questa la morale di «’68»: «È chiaro che stavo immaginando una vita artistica mia e non di gruppo, una musica che potessi realizzare da solo, come il pittore che avrei sempre voluto essere».

       
     
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